L. Lorenzetti: Destini periferici

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Titel
Destini periferici. Modernizzazione, risorse e mercati in Ticino, Valtellina e Vallese, 1850-1930


Autor(en)
Lorenzetti, Luigi
Erschienen
Udine 2010: Forum Universitaria Udinese
Anzahl Seiten
261 p.
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Rezensiert für infoclio.ch und H-Soz-Kult von:
Sandro Guzzi-Heeb, Histoire Moderne, Lausanne

Il periodo che va dal 1850 al 1930 è in generale considerato come una cesura epocale nella storia della regione alpina. un periodo critico e per certi aspetti drammatico, che segna il declino generale delle zone montane, il loro slittamento verso una condizione di marginalità e di dipendenza dai nuovi centri economici, dal mondo urbano e industrializzato. Le grandi ondate di emigrazione, ormai perlopiú definitiva, che hanno toccato anche il Ticino, sono tra i sintomi piú evidenti di tale declino.

Ma come si configura tale evoluzione nei vari settori dell’arco alpino? Si tratta di un fenomeno generale e ineluttabile, o piuttosto – come suggeriscono alcuni studi recenti – possiamo osservare un ventaglio di sviluppi differenti, di svariati adattamenti, di storie diverse, insomma, prodotte da ambienti economici e sociali differenziati? Tale problematica è al centro del ricco e interessante volume di Luigi Lorenzetti, coordinatore del Laboratorio di storia delle Alpi di Mendrisio e attualmente uno dei piú documentati studiosi di storia dell’arco alpino.

Lo studio prende le mosse dalle vicende di tre regioni alpine nel periodo critico considerato: si tratta del Ticino, del Vallese e della provincia di Sondrio, in Valtellina. Il taglio metodologico scelto dall’autore è originale e stimolante: Lorenzetti si chiede come avviene l’integrazione delle regioni montane e pedemontane in un mercato internazionale sempre piú «globalizzato» e in che modo tale integrazione influenzi l’allocazione delle risorse, in particolare delle risorse fondiarie, lavorative e finanziarie. «Per cercare di rendere conto delle differenze regionali circa le diverse configurazioni e intensità dei meccanismi di concentrazione e di diffusione – ci spiega l’autore –, si è scelto di considerare i rapporti allacciati dai gruppi domestici e dagli individui con i mercati e in particolare le forme di integrazione delle risorse (la terra, il lavoro, il denaro) nell’economia di mercato» (p. 258).

Si tratta quindi di un’impostazione fondamentalmente storico-economica, ampiamente basata sull’utilizzo e la comparazione di dati statistici aggregati, ma che si avvale pure di documenti e testimonianze di vario genere; un’analisi comunque attenta agli aspetti sociali e culturali della storia delle regioni considerate. Ma il lettore si rende conto ben presto che, per l’ampiezza della prospettiva e per la quantità degli studi utilizzati, il lavoro va al di là dell’obiettivo proclamato: l’esame dell’evoluzione dei vari comparti delle economie alpine ne fanno in larga misura una sorta di sintesi della storia della regione nella seconda metà dell’Ottocento e all’inizio del Novecento. Anche per questo motivo, va detto subito che non si tratta di un libro facile: la complessità delle analisi, i riferimenti a numerosi studi e anche lo stile non sempre semplice e piano dell’autore richiedono al lettore alcuni sforzi di comprensione.

Il volume si articola in due ampie parti: nella prima (La modernizzazione alpina, tra concentrazione, specializzazione e diffusione) Lorenzetti propone un’ampia discussione storiografica, riflettendo sul concetto di «modernizzazione» e analizzando criticamente varie interpretazioni della storia alpina del secondo Ottocento e primo Novecento; per passare in seguito ad una panoramica generale dei vari settori economici e del loro viluppo nel periodo considerato. Questa prima parte del volume rappresenta quindiuna sorta di ampia introduzione, in cui l’autore sintetizza criticamente i risultati di decenni di studi alpini, mettendo in rilievo le nuove interpretazioni e i nuovi interrogativi emersi negli ultimi anni.

È solo nella seconda parte (Risorse, mercato e economia famigliare nelle periferie in transizione) che Lorenzetti si concentra sull’oggetto specifico – e piú originale – delle proprie ricerche, prendendo in esame aspetti particolari delle società alpine e tematizzando la loro evoluzione a contatto con un mercato in evoluzione. È questa la sezione in cui l’autore propone alcune analisi originali, che meritano una piú ampia discussione. Nelle conclusioni, Lorenzetti riprende i risultati piú significativi emersi dai capitoli precedenti, formulando una rilettura in parte originale della storia alpina fra la metà dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento.

Ticino, Vallese e Valtellina, ricorda l’autore, presentano varie caratteristiche comuni: una tradizione di ampie autonomie politiche, uno sviluppo demografico assai simile, una crescente dipendenza dai centri economici… Ma le differenze non vanno sottovalutate. Emerge cosí un’immagine piú sfaccettata rispetto alla tradizionale visione del declino alpino. La marginalizzazione, in altri termini, non è stata né generale, né uniforme. una delle conseguenze dell’integrazione in un mercato internazionale è anzi stato l’aumento delle disparità all’interno stesso delle regioni alpine, con – nel caso ticinese – una «progressiva polarizzazione economica del cantone attraverso una crescente concentrazione demografica e del reddito complessivo dei comuni» (p. 257).

Cosí le reazioni alle sfide del nuovo mercato sono in realtà state molteplici: esse si sono spesso caratterizzate attraverso notevoli sforzi di sviluppo, per esempio con il lancio di nuove attività turistiche o industriali. In Ticino, il polo industriale di Bodio e il centro turistico emergente di Faido illustrano verso la fine dell’Ottocento tali velleità di sviluppo, che in complesso restano però puntuali. Il nuovo contesto globale dà quindi origine a nuove strategie economiche: puntando sulla specializzazione – ad esempio sull’allevamento – varie regioni tentano di valorizzare al meglio le loro risorse peculiari; altre sfruttano il movimento di diffusione di attività industriali verso le periferie per garantirsi una certa vitalità, fruendo di condizioni favorevoli, come il basso costo del lavoro o l’abbondante disponibilità di forze idriche.

Di particolare interesse mi sembrano le osservazioni di Lorenzetti sul ruolo cruciale del credito nella marginalizzazione delle società alpine. «La formalizzazione delle attività di credito – ci spiega l’autore – percepibile dalla progressiva rarefazione del credito informale di natura privata, traduce l’emergere di rapporti di dipendenza della montagna e delle difficoltà dei gruppi domestici di accedere ai canali del credito visto che banche e istituti di credito privilegiano gli investimenti di maggiore redditività (industria, finanza) delle economie urbane. Il mercato del credito sembra dunque sottrarre alle famiglie valligiane delle opportunità economiche…» (p. 260).

Nell’analisi di Lorenzetti, le trasformazioni del credito assumono dunque un ruolo centrale nella spiegazione delle difficoltà delle zone montane e della loro crescente dipendenza. «Secondo vari autori – conclude Lorenzetti – questo processo sarebbe all’origine del processo di «contadinizzazione» dell’economia alpina nel corso dei primi decenni del xx secolo. In altre parole, il ritorno a forme di «autarchia» economica (…) sarebbe il riflesso del diradamento dell’economia del credito che aveva fino ad allora sorretto l’impalcatura produttiva delle valli alpine».

Interessanti sono anche le osservazioni dell’autore sul ruolo della famiglia nei processi di sviluppo delle regioni considerate. Lungi dal rassegnarsi ad un ruolo passivo, i gruppi famigliari mettono in atto diverse strategie di adattamento alle nuove condizioni, le quali influenzano le modalità di sviluppo delle diverse regioni. «La pluriattività costituisce una strategia economica comune a numerose realtà rurali», sostiene Lorenzetti, seppur declinata in forme diverse, «a seconda delle opportunità offerte dal mercato». Le famiglie di operai-contadini del Vallese centrale sono un esempio significativo di tale strategia di adattamento: la presenza di attività industriali ha pure l’effetto di ristrutturare il tessuto agricolo, mutando in parte i tradizionali ruoli famigliari.

In questa prospettiva, l’autore rileva un’evoluzione in parte contraddittoria: «se da una parte il razionalismo e l’individualismo – tratti peculiari della modernizzazione – sono stati integrati dalle famiglie nei loro rapporti con i mercati, essi sono rimasti ai margini dei rapporti interfamigliari e individuali» (p. 260). L’autore si riferisce in particolare ad una subordinazione piú marcata delle donne a strategie famigliari (che implicitamente sembrano dirette dagli uomini), fenomeno che si manifesta tra l’altro in una diminuita presenza femminile sul mercato fondiario. Si tratterebbe dunque di una «modernizzazione parziale» della sfera famigliare.

Questa conclusione, seppure stimolante, mi sembra sollevare alcuni interrogativi piú ampi, che si ricollegano in generale all’uso del concetto di «modernizzazione». Vorrei soffermarmi su questo punto in quanto mi sembra cruciale per l’approfondimento degli studi sul mondo alpino e sulle società rurali in generale negli anni a venire. Tutta l’analisi di Lorenzetti si riferisce in effetti ad un paradigma normativo dello sviluppo economico che si rifà alle varie teorie della modernizzazione, formulate soprattutto negli anni ’60 dello scorso secolo. Nella prima parte del volume, l’autore discute e in parte relativizza il concetto; ma in realtà il termine di «modernizzazione» non è mai definito se non in modo relativamente vago (p. 21). Il problema è che, dal punto di vista storiografico, tale concetto si basa su una visione rigida dello sviluppo per cui, schematizzando, «moderni» per definizione sono i poli di sviluppo occidentali – i centri, le città, gli agglomerati industriali o terziari – mentre «tradizionali», per contrasto, sono le campagne e le società «agrarie». Misurare la regione alpina a tale concetto implica dunque il rischio del tautologico, poiché inevitabilmente ogni sviluppo nelle società rurali non sarà «moderno» che in modo parziale, incompleto, in qualche modo «inferiore» rispetto agli sfolgoranti modelli urbani occidentali elevati a paradigma. Ciò comporta il rischio di sminuire il potenziale innovativo – si potrebbe dire: squisitamente moderno – di alcune attività alpine, come il turismo, nel quale varie zone montane in parte sorpassano ed anticipano i centri. In questo senso non è forse un caso che il capitolo di Lorenzetti sull’«industria turistica » sia estremamente e sorprendentemente breve (pp. 98-101).

A mio modo di vedere i limiti di tale impostazione emergono, ad esempio, nell’analisi che Lorenzetti propone dell’evoluzione dei gruppi famigliari. È probabilmente vero che, come sottolinea l’autore, l’individualismo e il razionalismo non sono stati integrati che parzialmente nei rapporti famigliari e individuali delle regioni alpine: ma in quale società «moderna» lo sono stati integralmente? Se è vero che le donne alpine restano in una posizione subordinata, è vero anche che la «modernità» non ha permesso alla popolazione femminile un’individualizzazione totale e incontrastata: anzi proprio tappe canoniche della «modernizzazione», come la rivoluzione francese e l’avvento della società industriale, hanno inventato nuove forme di subordinazione della donna.

una difficoltà ulteriore consiste nel fatto che il concetto di modernizzazione rischia di banalizzare il problema dei sistemi culturali e dell’identità. Molti aspetti delle strategie economiche e sociali delle famiglie alpine, evidenziate da Lorenzetti, suggeriscono che spesso le popolazioni relative non hanno accettato le proposte di «modernità» provenienti dai centri urbani: a volte vi si sono opposte in modo frontale, a volte le hanno accettate solo parzialmente, adattandole alle condizioni locali. Nella prospettiva della modernizzazione, tali resistenze sono svalutate alla base come «ostacoli» allo sviluppo o espressioni di mentalità per definizione tradizionali; ma storicamente esistono società che non hanno voluto svilupparsi secondo modelli imposti e hanno trovato soluzioni differenti e non sempre peggiori. In Destini periferici questo problema resta in sospeso. Perché uomini e donne delle regioni alpine hanno spesso preferito emigrare che, ad esempio, andare a lavorare nelle fabbriche? Non è evidentemente solo un problema di domanda e di offerta di lavoro.

Personalmente credo sarebbe piú fruttuoso affrontare i diversi tipi di sviluppo, e in particolare le strategie delle famiglie, anche come espressioni di sistemi culturali e di identità diverse, in cui «tradizionale» e «moderno» sono piú che altro questioni di punti di vista. Consideriamo le tradizionali emigrazioni alpine, e l’evoluzione verso forme di emigrazione definitiva, a partire dall’Ottocento: si tratta di fenomeni «tradizionali» – in quanto ancorati in una lunga consuetudine – oppure di espressioni altamente moderne, essendo l’aumento della mobilità della popolazione e delle risorse – la de-localizzazione, secondo Anthony Giddens – indubbiamente un tratto specifico della modernizzazione?

La distinzione non ha molto senso: in molti casi – come nel romanzo di Plinio Martini Il fondo del sacco – alcuni fratelli si stabiliscono oltre Oceano, spesso nei poli di sviluppo a livello mondiale, mentre altri membri della famiglia restano nella valle; alcuni ritornano, altri rimangono all’estero. una strategia che contiene elementi moderni e altri tradizionali: si tratta del punto di vista che si adotta. Mi sembra insomma che se si vuole avanzare nella comprensione delle originalità delle regioni alpine bisogna abbandonare il concetto di modernizzazione, adottando strumenti concettuali meno rigidi e normativi, ma piú precisi. In questo senso l’analisi sarebbe piú convincente se al posto del paradigma della «modernizzazione », si basasse maggiormente sui concreti rapporti di «dipendenza».

L’ultimo problema sul quale vorrei soffermarmi è l’approccio macroeconomico dell’autore, ad esempio in relazione al ruolo attribuito al mercato del credito. Le osservazioni relative sono, come detto, molto interessanti: ma bastano ad attribuire a questo settore un ruolo tanto centrale, se l’autore stesso suggerisce che la liquidità delle famiglie comunque aumenta – grazie anche alle rimesse degli emigranti – ma che raramente le risorse disponibili possono essere investite in loco?

In questo caso, l’abbandono della prospettiva macro-economica, e qualche approfondimento su determinati istituti di credito, o su alcune regioni specifiche, avrebbe potuto essere estremamente utile. Sarebbe stata anche un’occasione per affrontare l’aspetto della politicizzazione del credito: non a caso, sia in Ticino che in Vallese, nel periodo considerato grossi scandali bancari scuotono le società locali. In Vallese si tratta del fallimento della banca cantonale, nel 1869, mentre in Ticino l’apice è raggiunto con i fallimenti di vari istituti alla vigilia della prima guerra mondiale. In entrambi i casi, le inchieste e gli studi successivi hanno messo in evidenza pesanti irregolarità nella gestione degli istituti e un uso fortemente politico e clientelare del credito.

Credo che si tratti di aspetti rilevanti, che hanno fortemente influenzato le modalità di sviluppo delle regioni in questione: il problema – anche qui – non è risolvibile considerando unicamente domanda e offerta di capitali e redditività economica.

Al di là di tali osservazioni, e degli interrogativi che rimangono aperti, il ricco volume di Luigi Lorenzetti costituisce una sintesi importante per comprendere i processi di sviluppo e di adattamento di diverse regioni alpine nel momento cruciale dell’internazionalizzazione dei mercati, fra la metà dell’Ottocento e gli anni ’30 del xx secolo. Contemporaneamente esso apre nuove e importanti piste di riflessione per meglio inquadrare le specificità della storia alpina in un’Europa in rapida e profonda trasformazione. Una lettura da consigliare a chiunque si interessa di storia delle Alpi.

Citation:
Sandro Guzzi-Heeb: Compte rendu de: Luigi Lorenzetti, Destini periferici. Modernizzazione, risorse e mercati in Ticino, Valtellina e Vallese, 1850-1930, udine, Forum, 2010. Première publication dans: Archivio Storico Ticinese, Nr. 150, 2011, p. 317-320.

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Veröffentlicht am
24.07.2012
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